9 dic 2012

Ognjen Spahic


articolo pubblicato su flanerì
Un piccolo universo concentrazionario chiuso in un recinto più grande. Detto in una formula semplice potrebbe essere questo, a un primo sguardo, il resoconto de I figli di Hansenromanzo dello scrittore montenegrino Ognjen Spahic, tradotto dalla benemerita Zandonai di Rovereto, cui dobbiamo la conoscenza di un drappello di autori poco noti al distratto pubblico dei lettori italiani (un raccontino di Spahic ispirato a Raymond Carver era apparso un paio di anni fa sulla rivista Crocevia, numero 13-14 dedicato al Montenegro).
La prigione è in realtà un lebbrosario – l’ultimo di cui si abbia contezza in Europa, mentre nell’introduzione Claudio Magris afferma che parrebbero esisterne nel mondo ancora 700. Lo spazio che lo circonda è nientemeno che uno stato totalitario, quella della Romania di fine regime, anno 1989. Nell’imminenza dell’agonia di una tirannide dai tratti raramente così grigi, la «terra sterile» che cinge il disgraziato ospedale non sembra molto più allegra. Eppure, nonostante Ceausescu – la cui agonia è imminente – chi sta fuori, al confronto, non può che rallegrarsene.«Nell’immaginario collettivo la lebbra era collegata principalmente a due cose: in primo luogo alle scene del Ben-Hur di Wyler – una colonia di lebbrosi che si aggira per il pianeta come castigo di Dio, condannata all’odio e alla morte dolorosa in caverne isolate, lontano dalle città; in secondo luogo, la paura del mostro biologico, l’intruso del ventesimo secolo, manifestatosi in questi tempi per un fatale errore della natura oppure per giustizia divina». Così scrive il narratore, parte della esigua schiera del lebbrosario,undici uomini e una sola donna, considerati dagli «ottusi contadini rumeni» alla stregua di «derelitti marchiati del genere umano». Fin qui, a parte l’anacronismo del lebbrosario, saremmo in un curioso documentario. Ma se qualche piccolo passaggio didascalico non manca, ciò che rende interessante il romanzo del quarantenne montenegrino – (musulmano liberal-democratico, ci avverte Magris) – è la vita che pure vi si agita. Escrescenze e protuberanze non impediscono ai derelitti di cercare con le forze residue di strappare quel che possono: persino i piaceri della carne. Ben dice lo sgomento del narratore lo spettacolo di due compagni di sventura avvinti in una pazzesca intimità sopra materassi imbottiti di lana grezza: al primo, un ammasso di gobbe, manca il naso e un piede, all’altro sono saltate tutte «le giunture degli arti» per cui il suo movimento  sembra quello di «una bambola sovradimensionata nell’oscurità delle confusioni infantili». Ma, come sempre, il contesto cambia di segno un passaggio che facilmente si presterebbe alla lettura compiaciuta di uno scenario freak (nel senso di Tod Browning o del grande Leslie Fiedler). Al divieto (!) di provare emozioni, i lebbrosi rispondono con tutta la gamma di sentimenti all’opera. Il narratore riceve splendidi regali di compleanno (il più prezioso: l’album bianco dei Beatles), da un amico carissimo che ha contratto la lebbra fra le prostitute di Amsterdam. La storia della loro amicizia muove il romanzo e gli dà un’energia insospettabile. Spinge la vita morente verso il fuori, letteralmente, a caccia del sole, del mondo verso cui si tenta di fuggire. Non mitiga minimamente la durezza della loro condizione ma esprime fra l’evidenza dell’orrore, dei corpi marcescenti il bisogno di richiamare attraverso l’immaginazione un qualsiasi barlume di «incanto» – impossibile, ma essenziale, decisivo per tentare la vita anche quando nessuno più oserebbe nemmeno nominarla. Dall’Europa orientale hanno qualcosa da dirci, ma le major non lo sanno.

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