Prigionieri
Dopo Non parliamo la stessa lingua, una raccolta di racconti uscita in Italia nel 2007 da minimum fax, lo stesso editore pubblica il primo romanzo dell’ebreo americano Todd Hasak-Lowy. Si è gridato all’evento ed evento non è. Prigionieri racconta la storia di Daniel Bloom, sceneggiatore di successo e marito e padre in crisi che, schifato dalla politica americana degli ultimi anni, ne viene a tal punto ossessionato dall’immaginare una storia in cui un tizio comincia a far fuori un bel po’ di gente di potere, perlopiù cagnacci da guardia di multinazionali. Questa urgenza di giustizia sociale coglie di sorpresa lo stesso protagonista, fino a quel momento inserito benissimo nella macchina di Hollywood (i suoi sono film adatti a un pubblico vastissimo purché intrappolato nella banale estetica della violenza spettacolare). Ora, il tentativo di sfogarsi nella scrittura legittimando la violenza sistematica su un piano etico-politico ha da fare i conti non solo con le difficoltà tecnico-espressive del progetto ma anche con i dubbi riguardanti la giustezza dell’implicita posizione ideologica (la legittimità della vendetta, appunto, della violenza politica) assunta da Bloom che mette alle costole dell’omicida un agente per nulla convinto di volerlo prendere. E soprattutto si scontra con la sua crisi personale: marito periclitante, padre assente ed ebreo a disagio con la sua religione. Talché, influenzato da un inquietante esemplare di rabbino aduso all’acido lisergico, decide di partire per Israele, in un viaggio a dir la verità senza capo né coda che culmina in un’improbabile, sostanzialmente isterica palingenesi. Il libro racconta la storia dell’uomo (che verrà lasciato dalla moglie e vedrà il figlio allontanarsi sempre di più) e quella che egli scrive sperando di farne un film che scuoterà gli spettatori dal torpore di questo orribile primo decennio del duemila (politicamente parlando). Naturalmente, tutta la sua crisi si risolve nell’assunzione della banale consapevolezza (e ci mette più di 400 pagine a capirlo) che ciò che gli preme di più è essere lasciato in pace, ossia scrivere senza sensi di colpa per le sorti della famiglia e del mondo che possono andarsene tristemente a puttane. Il problema non è l’esilità della trama ma il tentativo di Todd Hasak-Lowy di volare alto con certe questioni di fondo e soprattutto certi modelli letterari senza possedere, al momento, le ali per farlo. L’allestimento dello spettacolo concernente i travagli interiori di scrittori o film-maker et similia, in cui si intrecciano questioni estetiche, esistenziali e famigliari andrebbe riservato ai grandi: in una rispettabile bibliotechina casalinga sull’argomento c’è abbastanza da godere per dieci anni di lettura. In Prigionieri (si veda il primo capitolo) assistiamo a periodi prolissi e slabbrati che ripetono per troppe pagine le stesse cose con un lessico generico che non aggiunge nulla al detto prima; sembrano esercizi di maniera di uno studente in cerca di applausi, dotato ma non abbastanza da soddisfare le proprie ambizioni. La frase gira spesso su se stessa, fatica ad avvincere, spesso è accademica quando non proprio pleonastica. Roba del genere: “Sebbene le fatiche tutt’altro che trascurabili richieste dallo scrivere e vendere una sceneggiatura di successo fossero, appunto, tutt’altro che trascurabili” etc…: giudicate voi che bisogno c’era di sprecare tempo, suo e nostro, carta, energia…vita, insomma, per aggiungere niente alle prime due righe. Visto il libro nell’insieme, poteva andar meglio. Perché non mancano spunti interessanti. L’inscenarsi nella mente del protagonista del conflitto fra arte e spettacolo per esempio, la messinscena dei meccanismi mitopoietici contemporanei che sostanziano il lavoro creativo, la morsa che lo stringe fra la necessità di fabbricare una storia pensando a milioni di spettatori e il bisogno di raccontare la propria versione del mondo, il contrasto fra il Demiurgo che lo plasma nelle sue forme e gli accidenti temporali macchinati dalla tentacolare onnicomprensiva ragione del denaro. Sarà l’estate, ma ho pensato a quelle gelaterie dall’aspetto tremendamente invitante e al senso di parziale delusione alla fine del cono dal gusto un po’ vago. Coi dialoghi va meglio, a tratti molto buoni ma non di rado manieristici e troppo lunghi. Poiché il romanzo l’ho letto solo in italiano, non saprei dire quante e quali sono le cadute stilistiche dovute alla traduzione. Certo è che, visto che da minimum fax non lesinano civetterie come quella di aggiungere alla fine del libro filmici “titoli di coda” in cui si passano in rassegna non solo i nomi del traduttore ma anche quello di chi la traduzione l’ha rivista, dei redattori, dei correttori di bozze etc, decidano loro di chi è la responsabilità di quell’imbarazzante “molto certamente” di pagina 330.